Uno studio condotto dai ricercatori di Sassari ha permesso di dare un fondamento scientifico al fatto che il coronavirus sia un’infezione che non riguarda soltanto l’apparato respiratorio (e in particolare in polmoni), ma una malattia più complessa che può lasciare le tracce del suo passaggio anche in altri organi, come nel cervello, nel sistema nervoso, nel cuore e persino nel fegato (anche se per quest’ultimo organo sono stati condotti ancora studi carenti). Inoltre, esiste la possibilità di prestabilire quando un paziente Covid potrebbe sviluppare forme più gravi della malattia o addirittura valutare il rischio di esposizione alla mortalità del singolo paziente positivo attraverso degli indicatori biologici.
La ricerca è stata condotta dall’Azienda ospedaliera universitaria di Sassari, da un gruppo di docenti e studenti che per mesi si sono dedicati allo studio, all’analisi e alla ricerca per scoprire qualcosa in più su un’infezione che sta devastando non soltanto l’Italia, ma tutti i Paesi del mondo. I risultati della ricerca, inoltre, sono stati pubblicati su diverse riviste scientifiche internazionali come “Liver International, European Journal of Clinical Investigation” e “Molecules”.
I ricercatori – si legge su Sassari Notizie Online – hanno eseguito mesi e mesi di studio affiancando gli specializzandi e i giovani che hanno dato anch’essi un contributo fondamentale per ottenere i risultati sperati. “Dall’inizio della pandemia – ha spiegato il professor Alessandro Fois – oltre al grande sforzo quotidiano svolto nella diagnosi e cura dei malati affetti da Sars Cov-2, ci siamo subito impegnati anche in ambito di ricerca scientifica. In particolare ci siamo interessati allo studio di vari biomarcatori ematologici e sulla loro capacità di predire l’andamento e la prognosi della malattia. Per far questo abbiamo creato una rete di collaborazione che, in un secondo momento, è stata allargata alla collaborazione di altre strutture della regione, come Cagliari, Olbia e Nuoro, così da poter avere dei dati da tutta l’isola”.
Il team di ricercatori guidati dal professor Pietro Pirina, direttore della Pneumologia; dal professor Alessandro Fois, direttore della scuola di specializzazione in Pneumologia; dal professor Sergio Babudieri, direttore di Malattie infettive; da Giordano Madeddu, docente di Malattie infettive; e dal professor Ciriaco Carru; direttore dell’istituto di Biochimica clinica, ha goduto della collaborazione del professor Angelo Zinellu, associato di Biochimica Clinica, e del dottor Panagiotis Paliogiannis, specialista in Patologia Clinica.
La ricerca si è svolta su due fronti: anzitutto, ricercatori e specializzandi hanno rassegnato e studiato la letteratura già presente sul coronavirus offerta dapprima dai ricercatori cinesi, ma in seguito anche da altri Paesi del mondo. Una volta compresa la complessità dell’infezione e i possibili risvolti nel corpo umano, in un secondo momento sono iniziate le ricerche sul campo vere e proprie, che hanno permesso di individuare dei marcatori ematici che permettono di identificare il possibile sviluppo futuro del virus in un paziente risultato positivo, andando a definire quale sia la cura e il rimedio palliativo più efficace per contrastare l’infezione. In questo modo si potevano andare a rintracciare le possibili terapie da seguire sulla base della gravità della malattia sviluppata dal paziente.
Inoltre, nel corso delle loro sperimentazioni, i ricercatori hanno scoperto come il Covid-19 non sia una malattia soltanto polmonare, ma un’infezione che interessa diversi organi del corpo umano come, per esempio, il fegato. Nei pazienti più gravi, è stato notato lo sviluppo di dosi e quantità maggiori di bilirubina, rispetto ai pazienti che invece sviluppavano una forma lieve della malattia. La letteratura ci spiega che l’eventuale ricaduta del coronavirus sul fegato potrebbe essere dovuta anche “alla carenza di ossigeno nel sangue, alla risposta immunitaria e alla tossicità dei farmaci”.
Infine, lo studio dei ricercatori dell’Università di Sassari ha scoperto che esiste la possibilità di predire la mortalità dei pazienti affetti da Covid-19 attraverso l’analisi di un biomarcatore di danno epatico, calcolato dai livelli delle transaminasi ematiche. Questo meccanismo è noto come De Ritis ratio.